Lavoro e vita privata. Si lavora anche… dormendo
Intervista a cura di Ugo Perugini

Si può conciliare l’impegno di lavoro e la vita privata, ricorrendo a ritmi più “umani” senza che la produttività ne abbia nocumento?

Certamente, e tutte le imprese eccellenti che operano nei mercati internazionali e nazionali lo dimostrano inoppugnabilmente. In queste imprese il clima è positivo e attentamente curato, l’orario di lavoro (o meglio, la presenza al lavoro) è quello strettamente necessario, si riscontrano varie forme di benefit che hanno l’obiettivo di fornire supporto alla vita privata e familiare, si riscontra una positiva conciliazione tra vita aziendale e vita privata che non solo non intacca la necessaria produttività, ma addirittura la accresce.

In proposito è necessario riconoscere che la maggior parte dei collaboratori aziendali, che oggi sono presenti nelle più varie organizzazioni, non sono soggetti all’assoluta necessità della loro presenza (sicuramente necessaria per chi opera in una catena di montaggio o in un call center), ma possono essere definiti knowledge workers, cioè lavoratori della conoscenza che, con modalità più o meno prevalenti, debbono necessariamente impiegare le loro conoscenze professionali e le loro capacità per risolvere problemi e per raggiungere risultati sfidanti. E tutto ciò è ampiamente dimostrato e condiviso dal fatto che questi lavoratori della conoscenza (ovviamente quando non viene tarpata la loro motivazione) in realtà operano 24 ore su 24: trovano soluzioni e individuano opportunità addirittura più spesso fuori dall’ambiente di lavoro (guidando l’automobile, piuttosto che facendosi la doccia…). Spesso le soluzioni e le opportunità si presentano anche al risveglio, dimostrando che la mente delle persone stimolate costruttivamente non smette di fornire contributi anche durante l’elaborazione mentale che avviene durante il sonno.

In sostanza, le aziende che hanno il coraggio di uscire dal circolo vizioso del prolungamento rassicurante della presenza dei collaboratori sul posto di lavoro e di abbandonare l’arcaico, ma purtroppo ancora diffuso, criterio della pressione operativa e del controllo ossessivo, accettando un maggiore equilibrio tra impegno sul lavoro e vita privata, possono ottenere miracolosamente risultati migliori e operare con strategie più lungimiranti.

Infine, non va tralasciata la minaccia in corso derivante dalla tecnologia che fornisce la diffusa illusione di tenere sotto controllo tutte le variabili organizzative tramite la continua “connessione” che rende superficiali e banderuole soggette ad ogni tipo di richiamo, come se ognuno di questi richiami avesse la stessa importanza. Come ricorda Daniel Goleman nel suo ultimo libro: “Focus”, oggi si sta perdendo la capacità di riflettere, di concentrarsi distaccandosi, nei momenti chiave, dalla continua e distraente operatività. Più il contesto è turbolento e imprevedibile e più vi è la necessità di “fare il punto nave”, come quando si naviga nei mari tempestosi. La maggior parte delle aziende attualmente spinge i propri operatori a navigare alla cieca sperando che le cose vadano comunque bene. Il wishulful thinking (la speranza che il risultati si ottengano solo perché li si auspica fortemente e li si tiene sistematicamente sotto controllo) è una trappola mentale diffusa che rappresenta il nemico di ogni forma di benessere e di attenzione. Come dice Goleman: “Fare attenzione, cioè riuscire ad essere efficacemente connessi con la realtà, tende a renderci migliori e più felici”.